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Cistite Interstiziale: nuovi scenari nel congresso annuale ESSIC a New York

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A cura di Asia Cione

La Cistite Interstiziale (CI) potrebbe avere un’origine genetica, un aspetto che apre a nuovi scenari anche per le possibili cure. Ne hanno discusso gli esperti al congresso annuale dell’ESSIC (International Society for the Study of Interstitial Cystitis) che si è appena svolto a New York.  

Ribattezzata sindrome della vescica dolorosa, la cistite interstiziale comporta una condizione cronica di pressione e dolore sulla vescica che può variare di intensità e colpisce le donne 8 volte su 10. La vescica invia falsi segnali al cervello facendo percepire il bisogno di urinare nonostante sia vuota con l’aggiunta di uno stato infiammatorio perenne delle pareti con un irrigidimento e deterioramento delle stesse che, nei casi più gravi, costringe le persone che ne sono affette ad usare addirittura farmaci antidolorifici simil-morfinici. 

“È una patologia le cui cause non sono note” - dice il Dott. Mauro Cervigni, presidente dell’ESSIC - “sembrerebbe essere provocata da più fattori, come ad esempio una riduzione di strato interno della vescica (formato dai GAG - Glicosaminoglicani), che, quando assenti facilitano il passaggio di tossine all’interno della parete vescicale. Altre cause sono legate a un’infiammazione di tipo neurogeno e l’aumento di mastociti (presenti nelle zone di maggior infiammazione). Non essendo ancora chiara l’origine della patologia” – continua – “è ovviamente difficile il suo inquadramento e il trattamento”.  

Il dibattito resta ancora aperto e Cervigni conferma: “Durante l’ultimo congresso c’è stata un’ampia discussione sui nuovi campi di ricerca per curare questa sindrome in cui si sono evidenziati degli aspetti legati ad una componente genetica nei pazienti: la predisposizione nello stesso nucleo familiare è 17 volte superiore rispetto al resto della popolazione”. 

Non mancano però anche soluzioni innovative che strizzano l’occhio alle nuove frontiere della tecnologia applicata in ambito clinico: “anche l’intelligenza artificiale è stata menzionata tra le possibili soluzioni, per aiutare il processo diagnostico individuando pattern comuni e riconoscibili nelle pazienti” - e poi  - “l’individuazione di biomarker attraverso campioni di sangue e urine potrebbero aiutare a velocizzare altrettanto le diagnosi”. 

Diagnosi che, va detto, per questo genere di patologia arrivano tardi, se non tardissimo: “Il ritardo diagnostico per la CI è solitamente di 5 anni” – ha spiegato Cervigni – “in media dopo che il paziente è stato visitato da più professionisti del ramo, proprio a causa della peculiarità della patologia. Il quadro clinico solimante presenta comorbidità importanti che rendono il processo diagnostico difficile e che aumentano con il progredire della patologia se non viene trattata o se viene trattata male con effetti gravi sulla salute”.  

E qui entra in gioco la rete e la preziosità dello scambio di sapere che Cervigni ci racconta orgogliosamente: “La necessità di avere specialisti formati sulla CI è impellente: per questo continuiamo a fare rete con ERN (reti di riferimento Europee) che mette in contatto professionisti della salute per favorire il confronto e con cui collaboriamo anche per erogare formazione sul tema e diffondere buone pratiche tra i professionisti” – Ha concluso.  

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  • Data di pubblicazione 25 luglio 2023
  • Ultimo aggiornamento 25 luglio 2023