Oliviero Mazzone non pensava certamente che quel pomeriggio, uno dei tanti passati su e giù per Harley Street, la strada più densa di cliniche mediche e chirurgiche di tutta Londra, avrebbe comprato uno Steinway a coda, il sogno di tutti i pianisti, e che quei tasti li avrebbe suonati sei anni dopo suo figlio Matteo, il motivo per cui Oliviero percorreva tutti i giorni quella strada in lungo e in largo.
“Avevo smesso di suonare da tanti anni – racconta Oliviero – i figli, il lavoro, e poi Matteo, che passava da una clinica all’altra, da una città all’altra, in una sequela infinita di interventi chirurgici: Londra, Boston, Pittsburg, Detroit. Eravamo convocati continuamente negli ospedali di tutta Europa mentre la mia vita e quella della mia famiglia erano impegnate a resistere, a non disperdersi – ricorda - E se pure Mozart e Bach non avevo mai smesso di ascoltarli, un altro paio di maniche era suonarli, studiare uno spartito, dedicare tempo, ore, a qualcosa che, pur volendo, non poteva avere spazio nel mio quotidiano, completamente dedicato alla ricerca di una cura per Matteo, colpito, sin dalla nascita dalla Sindrome di Peters, una rara anomalia genetica della camera anteriore dell’occhio che può causare cecità ”.
E invece Oliviero, improvvisamente, quel pomeriggio entrò in quel negozio che aveva sempre sbirciato con la coda dell’occhio come qualcosa che non era e non poteva essere una meta di quelle passeggiate. Entrò e cominciò a sfiorare con le dita i tasti degli strumenti, accarezzandoli uno ad uno. La direttrice della Steinway hall, un’immensa galleria di pianoforti di fattura straordinaria, era anche lei una pianista e si accorse, mentre parlavano in inglese, di avere davanti invece una amabile signora napoletana. La conversazione proseguì in italiano e pochi giorni dopo firmò il contratto per l’acquisto. Matteo aveva solo tre mesi e non poteva sapere che da quel pomeriggio avrebbe avuto uno dei più bei pianoforti a coda che un musicista potesse sognare ma della magia di quella passeggiata in cui la bellezza si mischiava con il dolore qualcosa deve essergli arrivato. Oggi infatti Matteo ha dodici anni e chiede sempre a suo padre di portarlo a Londra in quel negozio che sente come un battesimo, dove non potrà vedere tutti i modelli di Steinway esposti su tre piani ma potrà toccarli, provarli, suonarli e farseli raccontare da suo padre che, come sua madre e le sue sorelle, instancabilmente, non smettono mai di descrivergli il mondo che ha intorno e che evidentemente riescono a fargli apprezzare. Matteo è infatti un bambino che ride e si diverte, tifa a squarciagola per la sua Lazio, adora la pasta con le vongole e non hai fatto in tempo a chiedergli di suonarti qualcosa che lui è già lì, seduto davanti al pianoforte e puoi sentire Bach, Mozart, Beethoven come fossi a un concerto tutto per te.
Oggi Matteo, dopo aver vinto per due volte il concorso musicale romano “Settenote”, suona nella Bio Blind Orchestra, diretta dal maestro Alfredo Santoloci, un musicista che ha creato un ensemble che include artisti non vedenti e che in un anno ha realizzato circa 15 concerti tra cui uno nel Conservatorio romano di Santa Cecilia dove Matteo, forse, vorrebbe studiare quando sarà più grande.
Se chiedi a Matteo cos’è la musica lui non ti lascia neanche finire la domanda e ti spiega che “è innanzitutto gioia” ed è la stessa che prova sia quando suona un’aria di Mozart sia quando esegue una ballata di Chopin, ma suonare in orchestra per lui è stata l’emozione più grande “suonare su un palco è la mia vita e spero che sia anche la mia strada. Mi accorgo – dice matteo - che la musica, se ho il pubblico davanti, mi viene meglio”.
E anche suo padre non ha dubbi sul valore di questa esperienza: “l’orchestra è stata per Matteo, come per tutti i musicisti che sperimentano questa prova, un momento importante di crescita da tutti i punti di vista – dice Oliviero – ha significato per lui confrontarsi, imparare, mettersi alla prova, cercare tutti insieme una sintonia, apprendere una lezione che la musica sa impartire bene a chiunque decida di suonare uno strumento”.
Ma la musica, come dice Oliviero, è studio, è esercizio personale e collettivo. In questi mesi di concerti lui stesso, che oggi è un avvocato, si è dovuto rimettere al piano e guidare Matteo in questa avventura bella quanto complessa: “Inutile dire che è stato bellissimo per me riprendere in mano la musica e farlo con Matteo – racconta – Scambiarsi una passione con un figlio è un’esperienza straordinaria, ed è oggi la prima cosa per cui ringrazio la musica”. Per Oliviero adesso il sogno è quello che si possa fondare una scuola, aperta a tutti, nella quale se tra i musicisti c’è qualcuno che ha bisogni speciali come, per esempio, quello di imparare a leggere le note con l’alfabeto Braille, questo non rappresenti un ostacolo ma semplicemente una diversa declinazione dell’apprendimento. Una scuola che apra a percorsi paralleli in cui la formazione possa avvenire anche attraverso modelli differenti e rispettosi delle specificità di ognuno.
“Ciò che vorrei è una scuola, ma prima di tutto uno spazio, fisico e simbolico insieme, in cui la musica possa essere l’unico vero comune denominatore di tutti gli artisti, il loro collante e il loro alfabeto – spiega – una palestra musicale dove ognuno possa percorrere strade diverse per imparare a leggere e a suonare lo stesso spartito. Leggere le note con il linguaggio Braille, per esempio, è molto difficile e sono pochi gli insegnanti che lo sanno fare – spiega ancora – Dedicare un luogo in cui la formazione si declina in diversi modi, compreso quello tradizionale, significa un’opportunità per tutti. Per l’orchestra di non rinunciare a un buon musicista solo perché, per esempio, ha difficoltà visive e a chi ha difficoltà visive di non rinunciare alla dimensione corale della musica, che è quella che regala le emozioni più grandi e che consegna all’arte quella dimensione umana straordinaria che è la condivisione dell’anima”.