Strumento di salvezza ma, al tempo stesso, fonte di stress psicologico. Assume questa doppia valenza il Catetere Venoso Centrale (CVC), elemento fondamentale della terapia per chi convive con l’Insufficienza Intestinale Cronica Benigna (IICB). E proprio il CVC o meglio il suo impatto psicologico sui pazienti pediatrici e adulti in Nutrizione Artificiale Domiciliare (NAD), è stato oggetto di una survey realizzata dall’ Associazione Un Filo per la Vita Onlus, i cui risultati saranno presentati il 6 dicembre durante il XIV Convegno dell’Associazione ( "Presente e futuro nella gestione condivisa della IICB: l’unione fa la forza”), organizzato in collaborazione con l'IRCCS Istituto Giannina Gaslini. Parallelamente, una seconda indagine condotta insieme all’Università di Torino contribuirà a una tesi di laurea dedicata all’impatto psicologico dei dispositivi di accesso vascolare.
Per chi vive grazie alla Nutrizione Parenterale Domiciliare (NPD), il CVC rappresenta un presidio salvavita, in quanto è attraverso esso che si riceve il nutrimento essenziale, ma anche un elemento che incide profondamente sulla sfera emotiva e sulla qualità di vita, a causa della sua presenza visibile, palpabile e della necessità di una gestione rigorosa. L’utilizzo quotidiano del catetere — sia esso un PICC (Peripherally Inserted Central Catheter), un catetere tunnellizzato o un Port-a-Cath — comporta infatti implicazioni psicologiche spesso sottovalutate.
Tra i principali fattori critici emergono: l’alterazione dell’immagine corporea e dell’autopercezione, soprattutto nei pazienti più giovani che possono provare imbarazzo o vergogna, limitando le interazioni sociali, l’abbigliamento, l’attività fisica; il senso di vulnerabilità legato al rischio costante di infezioni o complicanze, che genera ansia anche per la paura di “fare un errore”, il che potrebbe portare a un nuovo ricovero; la limitazione della libertà personale e della spontaneità, dovuta alla gestione dell’infusione e alla necessità di proteggere l’accesso vascolare in ogni attività quotidiana; l’isolamento sociale: la presenza del CVC e le routine di cura possono favorire, infatti, isolamento, imbarazzo e difficoltà relazionali.
Le evidenze raccolte confermano la necessità di un approccio più ampio alla NAD, che includa un supporto psicologico strutturato. Tra le proposte: programmi di formazione che integrino gli aspetti emotivi a quelli tecnici, fornendo strategie di coping efficaci per l’ansia e l’alterazione dell’immagine corporea; un maggior coinvolgimento dei caregiver anche sul fronte del sostegno psicologico, e la scelta, quando clinicamente possibile, di presidi meno visibili per ridurre l’impatto sull’autostima.
L’obiettivo, in ultima analisi, sottolinea l’Associazione, è quello di trasformare il CVC, quest’ “ancora invisibile”, da marchio della malattia a emblema di resilienza, per permettere ai pazienti di vivere con maggiore autonomia e serenità la propria quotidianità, nonostante e con il loro prezioso dispositivo.