Dopo i primi sintomi e la prima visita medica da cui si esce senza una diagnosi, iniziano quasi sempre le ricerche online, poi le visite dagli specialisti, in un vero e proprio rimpallo da un medico all’altro, fino all’effettuazione di test genetici, passando per l’incontro, auspicabile, con un’associazione di pazienti. È questo il viaggio a ostacoli, una vera e propria odissea, che le persone con malattia rara e le loro famiglie sono costretti ad affrontare per raggiungere, a volte dopo anni, la meta della diagnosi che, a sua volta, è un punto di partenza, in quanto prima tappa di un altro percorso, quello verso le cure e l’assistenza. A volte, però, la meta sembra davvero irraggiungibile, perché ci sono malattie o sintomi tali da comporre un quadro clinico inedito, non comune, a cui proprio non si riesce a dare un nome. E senza nome non è possibile accedere a terapie specifiche, laddove disponibili, a cure mirate, a centri di riferimento dove quella condizione patologica non è sconosciuta, ad associazioni di pazienti che condividono i medesimi problemi e magari le soluzioni escogitate per affrontarli. Insomma, dare un nome alla propria malattia consente, innanzitutto, di non sentirsi soli. E invece, circa la metà dei trenta milioni di persone che in Europa – come si legge su Horizon, the Eu Research and Innovation Magazine - convivono con una patologia rara si ritrova sola con una malattia che non è solamente ultrarara, ma ignota, misteriosa (in Italia, secondo dati dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, sono più di 100 mila le persone orfane di diagnosi). Per questo, nel 2014, su impulso del Centro nazionale malattie rare (Cnmr) dell’Iss, con la collaborazione della Wilhelm Foundation e sull’esempio del programma statunitense “The Undiagnosed Diseases Program”, nasceva all’Iss l’Undiagnosed disease network international (Udni), nel corso di quella che fu di fatto la prima conferenza internazionale di UDNI, presenti noi del Cnmr e 10 rappresentanti esperti di malattie rare provenienti da diversi paesi del mondo. Allo scopo proprio di fornire una diagnosi a pazienti che ne sono privi e di promuovere la ricerca sulle nuove malattie e sui meccanismi che le regolano. Da allora non ci siamo più fermati: i paesi in rete sono ad oggi 48 presenti in tutti i continenti, l’ultima conferenza si è svolta nel novembre scorso a Vienna (Austria), la prossima (la 12esima) è in programma per ottobre 2023 a Tblisi (Georgia).
Parola d’ordine per tutti noi - clinici, ricercatori, studiosi - è “condivisione”. Vogliamo condividere best practice, protocolli, consensi, fenotipi, dati genomici, analisi funzionali e modelli, nonché strumenti di gestione delle conoscenze. Per far questo, lavoriamo attraverso lo sviluppo di protocolli comuni ideati da un'ampia comunità di ricercatori, raccogliamo e condividiamo dati clinici e di laboratorio standardizzati e di alta qualità, relativi alla genotipizzazione, alla fenotipizzazione e ai fattori di rischio dovuti alle esposizioni ambientali. Con particolare attenzione ai paesi in via di sviluppo dove collaboriamo con gli esperti nazionali per formare ‘capacità’ locali in modo che la diagnosi corretta diventi lo standard di cura anche in questi contesti. In tale ambito, recentemente abbiamo anche pubblicato un lavoro scientifico con cui abbiamo mappato I bisogno e le opportunità dei pazienti rari in 20 dei Paesi che partecipano a Udni. In seguito a Udni, e parallelamente ad altre esperienze europee, nel 2016 è stato lanciato l'Italian undiagnosed rare diseases network (Iurdn) nell'ambito di un progetto bilaterale Italia-Usa, attraverso i fondi del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale. Della rete fanno parte per ora nove centri (ma l’obiettivo è ampliarne il numero) operanti a: Roma, Torino, Ferrara, Bergamo, Udine, L'Aquila, San Giovanni Rotondo, Reggio Calabria, Catania. Anche nell’ambito di Iurdn raccogliamo e caratterizziamo i pazienti con malattie rare non diagnosticate (Urd), provenienti dalla Rete italiana delle malattie rare, allo scopo di aumentare il tasso di diagnosi nei soggetti non diagnosticati. Ma con gli ulteriori obiettivi di migliorare la qualità dell'assistenza sanitaria, identificare nuove cause di malattie, promuovere la coesione, la collaborazione e le connessioni tra organizzazioni nazionali e internazionali. In che modo? Sempre condividendo standard e terminologie comuni per la classificazione delle Urd; gestendo un database nazionale, interoperabile a livello internazionale; eseguendo analisi Wes (analisi di sequenziamento dell’esoma, ovvero di quella parte di Dna responsabile della costruzione di gran parte del nostro corpo) su casi selezionati. E se la nostra modalità di lavoro passa necessariamente per la condivisione, l’imperativo categorico è quello della formazione e dell’aggiornamento. Per questo, come ogni anno, abbiamo organizzato il corso internazionale di formazione che ha lo scopo di delineare strategie che favoriscano la soluzione dei casi di malattie rare non diagnosticate. Corso che fa parte di una serie di attività formative proposte dal Programma europeo sulle malattie rare (Ejp RD), finanziato dalla Commissione europea con l'obiettivo di creare uno scambio “virtuoso tra ricerca, cura e innovazione medica”. Tre giorni di formazione residenziale durante i quali sono stati individuati e illustrati percorsi clinici e metodi innovativi per arrivare alla diagnosi, attraverso esempi utili per la risoluzione dei casi non diagnosticati, ovvero attraverso casi esemplari sfuggiti per lungo tempo alla diagnosi. E sempre, ad ogni edizione del corso, vediamo rafforzarsi quelle reti tra professionisti così preziose nel campo delle malattie rare.
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